“Un angelo alla mia tavola”

Un angelo alla mia tavola, 1990, Jane Campion

Autenticità e scrittura, il percorso di conquista di se stessa

“D’ora in ora più selvatica. Lo so.
Da tanti anni divorata,
tagliata, ritagliata,i rami costretti a destra e a manca,
mi slanciai, fiorendo, minuti fiori bianchi
sopra gli steccati fisso in viso le persone
Mi guardano le api, mi ha preso in manto il vento
Forte e aspro è il mio gusto, rigogliose le mie fronde.
Si acciglia la gente, se vede che metto ancora una radice.” (Janet Frame)

 

Il film si basa sull’autobiografia di Janet Frame scritta quando la donna aveva sessant’anni e ne ripercorre l’infanzia, il ricovero in manicomio ed infine il ritorno a casa.
L’infanzia di Janet è contrassegnata subito dai lutti, dalla malattia del fratello e da quel manicomio, lontano ma non troppo, che vede da bambina.
Sin da piccola Janet incontra un mondo adulto incapace di coglierne l’originalità ed a scuola si scontra con una pedagogia che oggi faremmo rientrare in quella che viene definita “pedagogia nera”1.
La vergogna e la paura nel sistema scolastico dell’epoca venivano utilizzate per assoggettare i bambini ed insegnare loro l’obbedienza, come ben si vede in alcune scene del film, ad esempio alla scuola primaria quando impara che la “verità” è quella che gli adulti vogliono che sia e più tardi al liceo riguardo al quale scrive: “qualsiasi cosa rendesse il nostro aspetto diverso dalle altre era causa di sgomento e preoccupazione” (Janet Frame,1999)2
Quell’obbedienza però finisce per diventare alienazione a noi stessi: “Se un piccolo obbedisce alla volontà di un adulto potente automaticamente aliena alla propria ” (Arno Grün , 2003).

La finzione/alienazione è proprio lo strumento che Janet adotta: resta in silenzio oppure si adatta a quello che gli altri credono sia il meglio per lei. Qui è chiaro il conflitto della piccola fra integrità e collaborazione di cui Juul parla nei suoi libri; egli ci ricorda che i bambini studiano gli adulti prima di esprimere i loro sentimenti oscillando continuamente fra la necessità di mantenere la propria integrità e la collaborazione con le figure di riferimento. In questo percorso però, pur di ottenere approvazione ed amore, la condizione base della sopravvivenza di ciascun individuo, gli esseri umani sono disposti a sacrificare la propria integrità e rinunciare a loro stessi proprio come fa Janet. La protagonista del film lo fa sin da piccola e continua a farlo nel corso della sua vita scegliendo ad esempio la professione di maestra, la più accettabile per una donna ma anche quella più lontana dalle sue reali inclinazioni.

Janet diventa infatti una pessima insegnante, incapace di accettare se stessa e per questo non in grado di stabilire una buona relazione con gli allievi finchè un giorno l’arrivo di un ispettore in classe per valutare i suoi metodi d’insegnamento la terrorizza a tal punto che fugge e tenta il suicidio.
Dopo questo episodio la donna abbandona l’insegnamento e dichiara “io voglio fare la scrittrice “; per la prima volta quindi utilizza il suo linguaggio personale. Descrive cioè con precisione i suoi desideri ed afferma la propria volontà, consapevole delle sue necessità e del fatto che non vuole fare la maestra. Il “problema” è che sebbene fin da bambini gli esseri umani siano capaci di riconoscere i propri bisogni e desideri essi dipendono dalla capacità e disponibilità di chi se ne occupa per riconoscere le loro competenze e il diritto di prendersi la responsabilità personale circa la propria vita. Ciò significa che le persone con cui interagiamo da piccoli devono accogliere l’altro come diverso da sé ed accettare che si esprima con le proprie particolarità; una cosa questa che nella vita della protagonista è sempre mancata e continuerà a mancare per molto tempo.
Infatti anche nel suo percorso universitario Janet, in cerca continua di conferme, subisce la fascinazione di un professore che ne scorge il talento ma che di fronte al malessere della donna ed al racconto che Janet fa del suo tentato suicidio la invita ad un breve ricovero volontario all’ospedale di Dudin. La donna nuovamente accetta quello che gli altri dicono essere meglio per lei e comincia il suo calvario nell’ospedale dove resta 8 anni subendo 200 elettroshock. Janet in realtà comprende da subito di non essere come le schizofreniche che la circondano anche se è quella sua diagnosi e vi si adatta.1
Per fortuna un riconoscimento per il suo primo romanzo e l’arrivo di un nuovo direttore in ospedale fanno sì che Janet riesca ad uscire per ritornare a casa. Questo percorso però non sarà per nulla facile per la donna segnata da un aborto che fa riaffiorare le sue angosce.

Janet spaventata cercherà ancora rifugio in una diagnosi medica per capire che cosa le stia succedendo e per trovare una risposta al proprio disagio. Lo psichiatra a cui si rivolge però questa volta le dice chiaramente che lei non è schizofrenica e la invita ad utilizzare la scrittura, ma stavolta non per fuggire bensì per trovare se stessa “scriva di quel periodo, dell’ospedale e se qualcuno vuole che socializzi non lo faccia”.
Janet inizia così a scrivere un nuovo romanzo e intraprende un percorso di psicoterapia una volta la settimana ed ecco che di fronte alla richiesta del proprio agente di scrivere qualcosa “di più facile”, un best seller, la donna rifiuta:
“sapevo di avere già recitato quella parte, a casa, da bambina, a scuola, all’università : ligia alle regole, 《la buona》liberata dal male, mai indotta in tentazione. Ma mentre allora gli elogi mi avevano dato una sensazione di dolciastro autocompiacimento, adesso mi davano poca soddisfazione, perché nell’aritmetica dei miei trentadue anni erano una sottrazione piuttosto che un’addizione alla stima che avevo di me stessa”2
Alla fine quindi la protagonista prende coscienza di sé e questo le consente di “avere la forza di dire sì o no quando è adeguato e necessario alla nostra salute psichica ed al nostro benessere sociale” (Juul,2012).
Il resto come si direbbe è storia, Janet torna a casa ed è lì che scrive, vive e poi muore ad 80 anni.